Fuori dalle Gabbie: I nostri educatori ripercorrono i momenti più importanti del progetto in un’intervista

Prosegue il nostro lavoro per portare avanti la nuova edizione di Fuori dalle Gabbie – Spoleto, un progetto dal grande impatto sociale. Tutto ciò è potuto avvenire grazie a chi ha creduto in noi e nel nostro operato, come Fondazione Azimut, che ci ha permesso di organizzare un nuovo corso di formazione per educatore cinofilo, destinato a 20 persone detenute nel carcere di Spoleto, e di predisporre l’erogazione di sei borse lavoro per attività a favore di cani senza famiglia

Grazie alle parole di Chiara Muzzini, educatrice cinofila della Fondazione CAVE CANEM e referente sul campo del progetto Fuori dalle Gabbie, e del suo collega ed educatore cinofilo Edoardo Morellini, coinvolto nell’iniziativa, abbiamo ripercorso i momenti più importanti che hanno caratterizzato il lavoro quotidiano delle persone detenute a contatto con i cani del canile di Spoleto

Come vi siete approcciati le prime volte alle persone detenute? Che tipo di lavori avete impostato da far svolgere loro con i cani scelti? 

Chiara: I primi incontri erano orientati ad approfondire una conoscenza specifica delle persone detenute per capire le caratteristiche di ciascuno. Ci sono stati utili per capire in che modo ognuno di loro potesse aiutare le differenti tipologie di cani. Una volta scoperte le singole peculiarità, abbiamo iniziato ad assegnare, ad esempio, i cani più timorosi e spaventati ai detenuti che sembravano avere attitudine ai lavori che necessitavano di più calma e pazienza, impostando percorsi basati sulla fiducia, oltre che sul contatto fisico e sulla condotta al guinzaglio.

Arrivati alla fine del percorso, i cani si comportavano in maniera decisamente più positiva e rilassata con le persone detenute che con chiunque altro entrasse in contatto con loro.

Quante ore al giorno dedicano le persone detenute al progetto?

Edoardo: Almeno 5 ore, ogni giorno. Dipende molto dagli orari di lavoro nel carcere, perché oltre a quella all’interno del canile, le persone detenute hanno varie altre mansioni. Ognuno di loro, tuttavia, si organizza per fare in modo che possa essere garantito il maggior tempo possibile ai lavori di recupero comportamentale dei cani coinvolti, oltre che naturalmente alla gestione del cibo e delle pulizie dei box dove sono accolti.

Ci sono state difficoltà che avete dovuto affrontare, punti critici nel percorso di affiancamento alle persone detenute?

Chiara: Ci sono stati, in alcuni casi, dei cani il cui recupero comportamentale era un po’ più complesso degli altri. La nostra difficoltà in quelle situazioni era legata al non poter essere presenti quotidianamente per guidare il lavoro dei partecipanti al progetto.

É stata una grande soddisfazione constatare che le persone detenute sono state perfettamente in grado di seguire le direttive, portando avanti i percorsi di recupero comportamentale. La presenza quotidiana, l’impegno e la costanza sono stati la chiave che ha permesso loro non solo di risolvere le problematiche legate ai singoli cani, ma anche di creare rapporti di fiducia molto intensi con ognuno di loro.

Edoardo: Un altro aspetto difficile è stato far passare il messaggio che i cani in questione avevano bisogno di essere sottoposti a un percorso di recupero comportamentale, pertanto era necessario metterli di fronte a delle difficoltà da affrontare, dando loro gli strumenti per superare le proprie paure. In quel caso invece, anche le persone coinvolte entravano in difficoltà, si preoccupavano di stressare troppo i cani, andando in apprensione. È stato bello vedere come emergesse il loro lato più umano e quasi paterno, che spesso in carcere non ha molto spazio per affiorare.

Chiara: Un compromesso che abbiamo dovuto trovare è stato quello di far lavorare le persone detenute con i cani al guinzaglio o nei rispettivi box per il tempo che lo richiedeva. Per persone come loro, che conoscono bene il significato della parola reclusione, era difficilissimo trattenere i cani a corda per svolgere dei lavori, perciò non appena li facevano uscire dal box mostravano immediatamente l’intenzione di scioglierli nelle aree sgambo. Non riuscivano a comprendere l’importanza dello strumento del guinzaglio al fine di garantire la possibilità di un’adozione, si immedesimavano nel bisogno di libertà che dovevano provare il cane. È stato bello vedere il percorso di consapevolezza che li ha portati a capire cosa volesse dire fare realmente del bene ai cani coinvolti nel progetto. Andando avanti nel tempo, sono cambiate anche le tipologie di domande che ci ponevano, si rendevano conto immediatamente di quali fossero le problematiche comportamentali più importanti, che andavano affrontate per prime sul cane in questione.

Quali sono stati i momenti in cui le attività svolte hanno fatto sì che fuoriuscisse il lato emotivo delle persone detenute coinvolte?

Edoardo: Le adozioni. Quella del cucciolo Theo è stata per loro un momento dolce e amaro allo stesso tempo. Si erano legati tanto ai cani, si era creato un rapporto quasi simbiotico, e se da un lato sapere che avevano finalmente raggiunto le loro famiglie li rendeva felici, il pensiero che non avrebbero più avuto possibilità di vederli era un duro colpo da sopportare, molti in quelle occasioni si sono commossi. 

Chiara: È stato emozionante anche percepire la gratitudine di coloro che, tra i partecipanti al progetto, erano i più chiusi e schivi. Non si trattava, in quei casi, di un “grazie” detto a voce, bensì di segnali nascosti dietro un comportamento apparentemente normale ma in realtà pieno di significato, come il cercarci nella struttura per raccontare i miglioramenti sul cane ottenuti grazie al lavoro svolto.

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